LA SINDROME DELL'EROE
1
Ho scoperto di soffrire di questa particolare sindrome fin da bambino ma la conferma della diagnosi l'ho avuta più avanti, da adolescente.
I sintomi che aumentavano e peggioravano sempre di più, in quella occasione, si manifestarono violentemente.
Colpito, come in una tempesta in mare aperto, il mio timone interno si spezzò sradicato dalle raffiche emotive impetuose; provocandomi una reazione che poteva costarmi la vita o la galera - nel migliore dei casi.
Avevo diciassette anni e mi trovavo in Irlanda il paese della Guinness - la birra scura più famosa al mondo - e dei folletti, se la vogliamo descrivere con due parole come siamo soliti fare. Ma anche di Michael Collins, dell' IRA, del Conflitto Nordirlandese, San Patrizio, Bram Stoker (autore di Dracula) e degli U2, se lo vogliamo fare con qualche parola in più.
Mi trovavo lì perché i miei genitori, in particolare mia madre, si convinsero che dovevo imparare quella che in futuro sarebbe stata la lingua di tutti (notizie dal presente: avevano ragione) e mi costrinsero letteralmente a fare una vacanza-studio in un paese anglosassone.
Mi spedirono - come vi dicevo - in Irlanda, precisamente a Waterford una cittadina sulla costa occidentale dell'isola.
Mi stabilii nel college della città che era immerso nel verde di un bosco. Lungo il tragitto per arrivarci incontrai scoiattoli che sguizzavano a pochi passi dai piedi e camminai su ponticelli scricchiolanti per attraversare i ruscelli.
Esternamente presentava un'architettura gotica, era antichissimo, risaliva al sedicesimo secolo. Per qualche istante credetti di dover andare a Hogwarts.
All' interno c'erano alcune zone originali: come la biblioteca, che permettevano di vedere solo attraverso la vetrata e severamente vigilata da un custode. Il resto invece, come i dormitori e la mensa, era stato rimodernato per accogliere gli studenti di questo secolo.
La sensazione di solennità e arcaicità che ti infondeva quel luogo era incredibile. Era come se avessi attraversato un portale temporale e a un tratto mi ritrovassi nel passato.
Dopo aver disfatto i bagagli e aver fatto le prime presentazioni, ci riunirono tutti nel cortile dove i group leader (così si chiamavano i responsabili della nostra incolumità) ci mostrarono il programma della vacanza-studio.
Funzionava così: la mattina dalle otto fino all'una si faceva lezione d'inglese con insegnante madrelingua; il pomeriggio era dedicato alle visite delle attrazioni e dei luoghi principali di Waterford e il weekend era destinato a visite di intere giornate come quella in cui visitammo Dublino, la capitale.
Ragazzi e ragazze avevano dormitori separati, inoltre i corridoi che separavano le due ale, di notte, erano attentamente vigilate dai group leader. Era comprensibile visto che si trattava di adolescenti in piena pubertà desiderosi di sperimentare la propria sessualità. Si narra, tra gli ambienti delle vacanze-studio, che ci sia un' intera generazioni nate durante questo periodo.
Era anche prevedibile che i suddetti ragazzi spinti dagli ormoni cercassero di raggirare la guardia notturna per intrufolarsi nella camere delle ragazze... Cosa che accadde spesso.
E in una di queste notti incontrai Morgana: una magnifica ed emancipata ragazza con i capelli biondi, il seno prosperoso e il piercing sulla lingua, di cui mi innamorai all'istante.
La mattina a causa di queste notti insonni ero a pezzi e cercavo di recuperare qualche ora di sonno in classe. Le teacher inizialmente mi richiamavano al grido di: "No sleep!", fino al più perentorio:" Out!" Ma dopo un po' compresero che era del tutto inutile e mi lasciavano dormire.
C'è una teoria in giro da qualche tempo, secondo la quale è possibile imparare l'inglese mentre si dorme. Basta ascoltare una registrazione dove qualcuno parla la lingua di Shakespeare e la mattina magicamente ti svegli che parli come un madrelingua.
La teoria è errata. Lo confermo per esperienza personale. Quindici giorni, quattro ore al giorno d'inglese mentre dormivo e non ho imparato una parola.
2
Quasi subito iniziai a stringere i rapporti con alcuni ragazzi. Il primo fu Catello, il mio compagno di stanza.
Era un ragazzone di diciassette anni ma ne dimostrava venti, era alto più di un metro e ottanta e portava i capelli scuri rasati. Aveva gli occhi sempre socchiusi come se li strizzasse, spesso coperti da un paio di occhiali da sole neri.
Veniva da Pagani un piccolo paese tra Napoli e Salerno e parlava esclusivamente in dialetto, per questo lo soprannominai O' Cafone. Quelle poche parole in italiano che proferiva erano talmente intrise di quel suono astruso da risultare incomprensibili. Facevo fatica a capirlo io, figuriamoci i non campani. Alla fine dovetti fargli da traduttore per tutto il tempo.
Lui per ricambiare mi soprannominò O' Fissato. In quel periodo della mia vita ero alle prese con l'acne, fatto che mi creava notevole imbarazzo e insicurezza. C'era in particolare un brufolo sull'estremità del sopracciglio destro che mi ha perseguitato per tutta l'adolescenza. Io lo schiacciavo e lui ritornava, tutte le volte.
Questo bubbone malefico oltre a creare un rigonfiamento, si arrossava rendendo evidente il fatto che fosse un brufolo. Un giorno, consigliato da una mia amica, ci misi su un po' di fondotinta coprendo il rossore. Così che nel caso qualcuno lo notasse avrei potuto dire di aver battuto la testa su uno spigolo e per questo avevo un rigonfiamento. Ne divenni dipendente. Negli anni successivi saccheggiai di nascosto tutte le scorte di fondotinta di mia sorella al punto che credette ci fosse un fantasma o più probabilmente lo capì ma non mi disse niente per evitarmi l'imbarazzo.
Ovviamente lo portai con me anche lì, e un giorno O' Cafone mi beccò mentre facevo l'operazione di camuffamento e da quel momento mi nominò: O' Fissato.
Nel cortile durante la pausa dalle lezioni incontrammo Fabrizio che O' Cafone soprannominò Jigen - quello del cartoon "L'incorreggibile Lupin" che in quegli anni, il 2004, veniva trasmesso ogni giorno in tivù -, era spiccicato a lui. Aveva i capelli nero corvino scapigliati, i lineamenti spigolosi e una leggera peluria acerba gli copriva il mento.
In bocca aveva sempre l'immancabile sigaretta: i primi giorni fumava sigarette ma poi passò al tabacco. Anche perché lì un pacchetto di sigarette costava quasi dieci euro ed evidentemente non se lo poteva permettere, visto che fumava come una ciminiera.
Veniva da Roma e parlava pochissimo, era un tipo introspettivo, ogni volta che apriva bocca era per fare una di queste domande: "Aoh c'hai da accende?, "Aoh ma che stai a fa'?" oppure "Aoh annamo a magnà?", le ripeteva come un mantra.
Durante un pomeriggio alla fabbrica di cristallo - di cui Waterford è rinomata - conoscemmo Ugo, che all'unanimità soprannominammo Porcellino. Lo conoscemmo mentre mangiava con voracità un pacco di biscotti e O' Cafone fece un commento nel suo linguaggio primitivo che nessuno capì, tranne io, e che tradussi in: "Ua' e che famm che tieni!"
Porcellino smise di mangiare e iniziò a ridere così forte e di gusto che in un attimo contagiò tutti. Ridemmo per tutta la durata della visita come idioti e per poco, le guide che spiegavano il processo di lavorazione del cristallo, non ci sbatterono fuori.
Porcellino era piccoletto, tarchiato, aveva il viso tondo che si colorava in varie gradazioni di rosso a secondo dell'emozione che provava. Aveva gli occhi azzurro cielo coperti da occhiali da vista tondi alla Harry Potter.
Lui rispetto alle altre persone che conobbi era... come dire... più sensibile.
Prima di allora non aveva avuto molte occasioni per relazionarsi con gli altri. La scuola che frequentava a Milano - da dove veniva - era una delle più blasonate e disciplinate, inoltre i genitori decisero che oltre allo studio in quel periodo della sua vita non ci poteva essere spazio per altro.
Era come se fosse uscito da un bunker dopo dieci anni di isolamento. Ogni cosa che per noi era normale e scontata per lui era nuova ed entusiasmante.
Era un ragazzo empatico e anche molto intelligente, spesso veniva preso in giro per il suo aspetto ma ci rideva su rispondendo con ironia.
Mi affezionai subito a lui e lo presi sotto la mia ala protettiva. Scattò qualcosa in me: quando mi accorgo di trovarmi in presenza di una persona più debole o in difficoltà si attiva un senso di protezione. Da quel momento in poi, mi dico, la proteggerò da ogni pericolo.
Non lo so... forse sarà stata l'influenza mediatica ricevuta da bambino, tra: i Cavalieri dello Zodiaco, i Cinque Samurai, l'Uomo Tigre per i quali l'unico scopo della loro esistenza era salvare e proteggere i più deboli dai malvagi. Oppure l'ossessione per Che Guevara che mi trasmise zio Mario; il quale, ogni volta che ci vedevamo, mi tesseva le lodi del medico argentino che sacrificò la vita per proteggere i popoli dai soprusi... Proprio non saprei.
So solo che ogni volta in cui mi ritrovo in una circostanza simile, reagisco in questo modo.
3
Dopo un po' al gruppo si unì un altro componente: Iris, la mia ragazza.
Lo so, ricordo di aver detto in precedenza di essermi innamorato già di Morgana. Infatti Iris la conobbi una notte mentre cercavo di superare le guardie per andare da lei ma non ci riuscii.
Braccato da un group leader veloce e tenace iniziai a bussare tutte le porte per trovare rifugio, fino a quando qualcuno mi aprì. Era lei, Iris. Mi accolse e rimanemmo svegli a parlare tutta la notte e mi innamorai di lei.
Questo, però, fu un amore più spirituale rispetto a quello più fisico che provavo per Morgana. Ci sentivamo come se ci conoscessimo da sempre; fu tutto così semplice, naturale: dopo quella sera non riuscimmo a stare più lontani.
Il giorno dopo andai da Morgana e le spiegai la cosa, lei mi guardò negli occhi e mi disse: "E' stato bello!", poi si girò e se ne andò.
La sera stessa la vidi che si baciava appassionatamente con un ragazzo. Che ragazza emancipata! Avanti anni luce.
Iris era bellissima, somigliava a Sophie Marceau - l'attrice del "Il tempo delle mele". Aveva i capelli castani e gli occhi dal taglio orientale nocciola, quando sorrideva gli occhi si chiudevano completamente e il naso si arricciava. Veniva dalla Toscana - da Lucca, precisamente - e quando parlava era evidente quella particolarità del dialetto toscano che aspira la c, e ogni volta che mi diceva: "La vuoi la hoca-hola?", impazzivo.
Non creò alcun scompiglio nel gruppo, anzi la accolsero calorosamente. Era, tra le altre cose, molto affabile e subito entrò in sintonia con gli altri.
Man mano che i giorni passavano i nostri legami si rafforzavano sempre di più, fino a diventare inseparabili.
Dovete capire che lì il tempo non è percepito come nella vita normale. E' dilatato: scorre veloce ma allo stesso tempo è rallentato. Ogni momento, ogni relazione la vivi al massimo... E' tutto amplificato.
Quella scadenza inevitabile e improrogabile non permetteva riflessioni troppe lunghe, agivamo spinti dalle emozioni.
E' così che si dovrebbe vivere: con una scadenza. Dovremmo sapere in anticipo quando la nostra vita finirà. Sì... all'inizio sarebbe scioccante. Ma poi dopo vivremmo la vita che abbiamo sempre desiderato: senza rimpianti, senza turbamenti mentali, senza "Lo faccio domani!", "Glielo dico domani!". Così fino alla fine, fino alla data di scadenza.
4
A metà percorso si unirono al gruppo tre ragazzi siciliani che aveva conosciuto 0' Cafone. Erano ragazzi svegli, venivano da Palermo.
Una sera decidemmo di riunirci tutti nella camera di Jigen, che era quella raggiungibile da tutti senza troppe difficoltà.
Uno dei siciliani si presentò con una bottiglia di vodka alla pesca. Gli chiedemmo come avesse fatto, visto che la vendita degli alcolici era vietata ai minorenni e ogni volta che ci avevamo provato ci fermavano alla cassa chiedendoci i documenti. Ci rispose che ci stava provando fin da quando eravamo atterrati e non era mai riuscito a superare i controlli, fino a quel giorno quando un cassiere sbadato lo fece passare tranquillamente senza chiedere i documenti.
Iniziammo a bere e scoprimmo che Porcellino non aveva mai bevuto un goccio in vita sua, così provvedemmo a iniziarlo. Gli facemmo bere un solo bicchiere per vedere come reagiva ed evitare situazioni sgradevoli, rimase tutto il tempo con un sorriso stampato sul viso che era diventato rosso scuro.
I siciliani preparavano i drink e bevvero un paio di drink a testa, dopo il secondo bicchiere iniziarono a ridere a crepapelle e a ripetere in continuazione: "Minchia!
Jigen alternava una sorsata con un tiro di sigaretta coordinato in maniera perfetta, sembrava una coreografia.
O' Cafone era una spugna, bevve più di tutti ma rimase impassibile agli effetti dell'alcool. Forse l'unico segno di alterazione - che camuffava benissimo - lo si poteva notare quando parlava: in italiano, e stranamente abbastanza comprensibile.
Iris dopo il secondo drink si addormentò tra le mie braccia e io - conoscendo la mia predisposizione a ubriacarmi facilmente - dopo il secondo drink rifiutai gli altri inviti a bere di O' Cafone.
L'alcool ci rilassò e ci rese loquaci. Fu un' occasione per conoscerci meglio. Persino Jigen parlò un po' più di sé e scoprimmo essere un ragazzo molto più complesso di quello che potevamo immaginarci.
Ci disse che il suo sogno era quello di riuscire a vivere disegnando fumetti. Aveva questo talento fin da bambino ed era in continua lotta con il padre che lo avrebbe voluto medico come lui.
Forse per l'alcool, forse perché stavamo talmente bene nel caldo rifugio della convivialità... accadde che ci addormentammo tutti nella camera di Jigen.
Quando uscivamo la notte avevamo stabilito orari precisi per non farci beccare. Dovevamo uscire dalle nostre camere massimo per le dieci -prima che iniziasse la ronda - e ritornare dopo le tre del mattino quando ormai tutti i group leader avevano fatto ritorno nelle loro camere.
Seguendo queste regole fino a quel momento nessuno ci aveva mai colti in flagrante.
Quella mattina, invece, ci svegliammo di soprassalto all'incessante bussare del direttore. Fu avvisato dai group leader che, constatando l'assenza dalle nostre camere, scoprirono gli altarini.
Capimmo di averla fatta grossa e inizialmente cercammo di escogitare un modo per farla franca ma non ci fu verso.
Il direttore usò il pugno duro e oltre a non farci uscire dalle stanze per due giorni, mise un group leader a sorvegliare le singole camere di ognuno di noi durante la notte.
Fu una tragedia per tutti, perché perdemmo il nostro ritrovo notturno, ma in particolare per me e Iris che non potendo più amarci di notte, appena avevamo un momento per stare insieme ci appartavamo in qualche angolino a sbaciucchiarci.
5
Con il passare dei giorni dovemmo abituarci ai nuovi ritmi. Le teacher, con molta sorpresa, mi trovarono sveglio e attento così provai a imparare qualcosa.
Dovevamo trovare un nuovo posto dove poterci radunare, noi del gruppo, e lo trovammo nel cortile durante la pausa pranzo e nelle gite che facevamo nel pomeriggio.
In una di queste uscite pomeridiane andammo nella piazza principale di Waterford.
O' Cafone entrava in tutti i pub che trovava e ogni volta uscendo diceva nella sua lingua: "Guagliù, già stanno tutt mbriac!". Jigen girava per i negozi di tabacchi e restava assorto immobile a osservare gli immensi assortimento di tabacco. Iris conversava amabilmente con le sue nuove amiche che aveva conosciuto da quando conduceva una vita diurna. Io, invece, ero seduto su una panchina con i siciliani a godermi il sole estivo del nord, non troppo cocente, che mi lambiva il viso.
Con i siciliani mi trovavo a mio agio, venivamo da posti simili e avevamo lo stesso modo di guardare la vita.
C'erano tutti, mancava all'appello solo Porcellino. Perlustrai tutta la piazza con lo sguardo e finalmente lo trovai: era in disparte a gustarsi un gelato.
Distolsi lo sguardo e lo rivolsi di nuovo al sole: ero tranquillo, riposato, mi sentivo bene. Tuttavia c'era qualcosa che mi turbava, avevo una strana sensazione. Mi rigirai di nuovo verso Porcellino e notai tre tipi loschi che gli gironzolavano intorno.
Erano sicuramente del posto, mi colpii in particolare uno dei tre: aveva i capelli biondi pettinati con una riga in mezzo e gli occhi azzurri - somigliava molto a Nick Carter, il cantante dei Backstreet Boys. Nonostante il suo viso angelico nello sguardo c'era qualcosa di cupo. Indossava una maglia della nazionale irlandese, del tipico colore verde, su cui, nel lato posteriore, c'era stampato il numero dieci e il nome Keane.
Il mio "senso di ragno" si attivò. I siciliani parlavano ma io non li ascoltavo più, ero pienamente concentrato su quella situazione.
Continuarono a girargli intorno, poi si avvicinarono e iniziarono a deriderlo. Porcellino, inizialmente, cercò di ignorarli continuando con disinvoltura a mangiare il gelato ma questo li indispettì ancora di più. Le molestie verbali aumentarono sempre di più fino a quando Nick Carter gli tolse il gelato di mano e glielo spiaccicò in faccia.
Ebbi un sussulto e poi il tempo si fermò. Studi di neuroscienze hanno appurato che durante una forte emozione la percezione del tempo è distorta, la viviamo a rallentatore. Tipo come in Matrix: nella scena in cui Neo schiva le pallottole dell'agente Smith.
E in quel momento, stavo proprio vivendo una forte emozione. Il mio corpo era in subbuglio, era come se un'entità estranea si fosse impossessata di me. Non ero più io al controllo ma Mr. Hyde: una versione di me nascosta e aggressiva che esce fuori nei momenti di pericolo.
Mi alzai di scatto e mi diressi verso il biondo malvagio, lo attirai verso di me con un suono gutturale che mi uscì dal profondo delle viscere, lui si girò, mi avvicinai con fare minaccioso inveendo in dialetto napoletano - io non ricordo granché ma i presenti mi dissero che ripetevo in continuazione: "Strunz!" -, lui, sorpreso dalla mia reazione, indietreggiò per qualche metro ma poi si fermò.
Ci scontrammo, eravamo testa a testa a ringhiarci contro come animali. Sentivo il suo alito che puzzava di birra e marijuana e vedevo i suoi denti ingialliti digrignare fino quasi a spezzarsi. Sembrava una scena di Dragon Ball: quando i due combattenti si scontrano e intorno a loro si forma un'aura di energia.
Rimanemmo fermi in questa posizione per alcuni secondi fino a quando i group leader, richiamati dai ragazzi, intervennero per separarci. I tre, ritrovandosi in inferiorità numerica, si allontanarono. Prima di dileguarsi Nick Carter mi fissò negli occhi e si passò la mano intorno al collo simulando lo sgozzamento.
Quando il pericolo passò, pian piano ritornai in me: il tempo tornò a scorrere normalmente e la parte razionale del cervello riprese il controllo.
Dopo il gesto fui acclamato come un eroe: i ragazzi mi davano pacche sulle spalle e le ragazze mi facevano gli occhi dolci. I group leaders, invece, dopo aver appreso l'accaduto, mi rimproverarono duramente e mi esortarono, nel caso fosse accaduto di nuovo, ad avvisare loro ed evitare di reagire.
Dopo la strigliata andai da Porcellino per assicurarmi che stesse bene, lui mi guardò e mi disse: "Vado a prendermi un altro gelato!", stava bene.
6
La situazione si normalizzò. Tutti tornarono a fare quello che facevano prima e dei tre bulli non c'era traccia.
Io e i siciliani decidemmo di non tornare sulla panchina e sgranchirci un po' le gambe.
Venimmo attratti da un negozio di souvenir e decidemmo di entrare. Era pieno zeppo di oggetti del folklore irlandese, tra cui i classici: folletti e quadrifogli, oltre alle innumerevoli cartoline di Waterford.
Ne approfittammo per acquistare qualche regalo per amici e parenti e poi uscimmo.
Io fui l'ultimo a varcare la soglia dell'uscita e ad attendermi c'era una sgradita sorpresa: i tre Irish si pararono di fronte a me impedendomi di proseguire.
Nick Carter mi si posizionò davanti e gli altri due ai suoi lati, chiudendo tutte le vie di fuga.
Iniziammo a guardarci di nuovo in malo modo e le nostre aure vibrarono.
Questa volta però fui preso io alla sprovvista e - devo ammetterlo - ebbi una paura tremenda.
Guardai i suoi occhi che erano di ghiaccio e fissi nei miei - sembravano quelli di Clint Eastwood un attimo prima di premere il grilletto. Poi il mio sguardo si spostò sulle sue mani strette in un pugno e notai che sulla maggior parte delle dita di entrambe aveva anelli grandi come biglie. Immaginai il suo pugno sul mio volto e i danni che avrebbe provocato. Sentivo di dover fare pipì e mi sentivo la fronte madida di sudore.
Se fossi scappato, pensai, avrei perso l'onorificenza di eroe acquisita poco prima. Certo, mi avrebbero capito. Ma in fondo al cuore avrebbero pensato che non ero altro che un impostore, un occasionale. Sarebbe stata per me una forte umiliazione e la mia autostima ne avrebbe risentito pesantemente; ma allo stesso tempo ci tenevo alla mia incolumità e al mio viso, che non era quello di Leonardo Di Caprio ma ormai dopo diciassette anni ci ero affezionato - brufoli compreso.
Rimanemmo per alcuni istanti, che a me sembrarono un'eternità, a fissarci e a insultarci violentemente ognuno nella sua lingua, senza che però nessuno dei due agisse: io ero immobilizzato dalla paura e lui nonostante fosse pronto a saltarmi addosso, inaspettatamente, non si mosse di un centimetro.
"Hey, Guys. Stop... Stop!", sentì all'improvviso. Fu come una secchiata d'acqua gelida che mi destò.
Nick Carter e i due scagnozzi si girarono e io seguii il loro sguardo. Vidi due poliziotti avvicinarsi a noi e con loro c'era Gianni, un group leader di Napoli, che avvisato dai siciliani aveva chiamato le forze dell'ordine.
I poliziotti presero i tre da parte e io, scampato il pericolo, tirai un sospiro di sollievo.
7
Dopo quest'ultimo evento, i group leader radunarono tutti i ragazzi e facemmo ritorno al college.
Durante il tragitto per il ritorno, Gianni si avvicinò e mi guardò come se stesse per farmi una ramanzina.
- Leo, ti sei salvato per puro caso, lo sai?
- No. Perché?
- Perché se non fosse stato per una legge recente, adesso staresti tutto scassato in ospedale.
- Ma che dici?
- Dico, dico. Me l'hanno detto i poliziotti. In pratica: la nuova amministrazione, per evitare ogni volta di riempire le celle per le continue risse, ha approvato una legge che stabilisce che solo chi inizia la rissa va in galera.
- Ah... ecco perché il biondo non mi è saltato addosso.
- Hai tenuto proprio un mazzo esagerato.
- Mamma mia. Sono stato graziato. Quello mi riempiva di mazzate.
-Comunque, la prossima volta che veniamo tu è meglio che non ci vieni, per sicurezza.
- Va bene. Mi metto a ripetere un po' d'inglese.
- Sì, sì... ci sto credendo.
Arrivammo al college e mi avviai verso le scale che portavano agli alloggi, quando Gianni mi richiamò.
- Leo, prima di salire vieni un attimo qua ti devo dire un'altra cosa.
- Che c'è Gianni? Mi voglio fare una doccia prima di cenare, - protestai.
Scesi dalle scale e andai da lui.
- Che rimane tra di noi, però. Hai fatto proprio bene. Al posto tuo avrei fatto lo stesso. Sei come me... tieni la "Sindrome dell'eroe".
- E che è mo' questa "Sindrome dell'eroe"?
- E' una cosa buona, stai tranquillo. Devi solo imparare a gestirla. Io con il tempo sono molto migliorato.
E' come nei film: ci sta l'eroe e il cattivo. Tieni presente?
Tu sei l'eroe, che non riesce a sopportare di vedere i cattivi - tipo il biondo, per esempio - che trattano male le persone. E devi intervenire per aiutarle. E' più forte di te.
- Gianni, ma mica posso fare sempre questo. Se non era per la legge quello mi riempiva di mazzate.
- Già te l'ho detto. Con il tempo imparerai a gestirlo. Diventerai meno istintivo. Però prendila come una cosa positiva. Come una missione: se il mondo è diviso tra buoni e cattivi, tu sei uno dei buoni. Devi essere contento di questo.
- Vabbuò. Se lo dici tu. Speriamo che riesco a sopravvivere fino ai diciotto anni.
- Mo' vatti a fare la doccia. Che tra poco ceniamo.
- Vado, a dopo. Ah... e grazie!
- Le grazie le fa la Madonna. Anzi San Patrizio, perché stiamo qua.
EPILOGO
I quindici giorni passarono. Furono brevi ma intensi. Pieni di esperienze e ricordi che ancora oggi, a distanza di tempo, di tanto in tanto mi attraversano i pensieri.
Durante i mesi successivi, noi del gruppo, ci sentimmo assiduamente fino a incontrarci varie volte. Ma con il passare del tempo quel legame intenso che si creò in quei giorni, si affievolì. Pian piano iniziammo a sentirci sempre meno, fino a non sentirci più.
Le cause furono sicuramente la distanza: i legami per durare e fiorire hanno bisogno della presenza. Ma soprattutto la fase delicata della vita in cui ci trovavamo, eravamo a pochi mesi dall'ingresso nell'età adulta, e questo provocò non pochi sconvolgimenti a ciascuno di noi.
Recentemente assalito dalla curiosità ho fatto una ricerca sui social per vedere come se la passavano.
E ho scoperto questo...
Porcellino, da quello che ho potuto capire, vive e lavora all'estero. E viaggia molto. Fa uno di quei lavori moderni dove non hai bisogno di restare in ufficio dodici ore al giorno, giacca e cravatta e sempre sul pezzo. Probabilmente dopo avere passato una parte della sua vita tra le restrizioni e le imposizioni della famiglia, immagino abbia voluto liberarsi e vivere una vita senza barriere.
O' Cafone ha coronato il suo sogno (che mi rivelò durante una notte insonne) diventare capo ultras della Paganese, squadra di calcio che milita in serie D.
Jigen, alla fine ce l'ha fatta. Ha vinto la lotta con il padre e ha seguito la sua vocazione: fa il fumettista ed è anche molto bravo e apprezzato.
Iris, è sposata e ha due bellissimi bambini. Hanno i suoi occhi. E lei è ancora più bella. Dal sorriso che sfoggia, nelle poche foto che ha pubblicato, mi sembra soddisfatta e realizzata.
Rimasi in contatto, invece, negli anni successivi con Gianni, il group leader.
Fummo facilitati perché eravamo entrambi di Napoli, ma oltre a questo c'era un piacere reciproco nel vederci. Lui divenne a tutti gli effetti il mio mentore.
Ci incontravamo spesso il sabato mattina e passeggiavamo tra le vie di Napoli.
Durante questo tempo trascorso insieme mi svelò alcuni segreti per gestire le reazioni causate dal "super potere" che condividevamo e mi insegnò a riconoscere i cattivi dalle prime impressioni.
Mentre camminavamo, si fermava all'improvviso e mi diceva:
- Lo vedi a quello?
- Sì, lo vedo. Che fa?
- E' un cattivo!
-Gianni... e dai! Ma come fai a dirlo?
- Guarda gli occhi, il ghigno... guarda come tratta la persona che ha vicino.
Mi spiegò anche che buono o cattivo non si nasce ma si diventa. Molto dipende dalla famiglia, l'ambiente in cui cresci, i traumi ecc. Ma poi, a prescindere da tutto questo, arriva un momento nella vita che sei tu a scegliere da parte stare.
Fu un buon maestro e quel addestramento fu essenziale per controllare le mie reazioni future. Ancora oggi ci sentiamo regolarmente e condividiamo le nostre esperienze. Inoltre siamo sempre alla ricerca di nuove leve, affette dalla nostra stessa sindrome, da reclutare per continuare la nostra missione: proteggere i più deboli dai cattivi.
OGGI
Sono in palestra, seduto sulla panca mentre riprendo fiato dopo l'esercizio. Sono immerso nei pensieri: ripenso alla giornata di lavoro, alla figuraccia che ho fatto con Marco, il mio collega, e a Chucky, il mio gatto, che stamattina non è tornato a casa dopo una notte d' amore.
All'improvviso sento qualcuno alle mie spalle discutere vivacemente, mi giro e vedo un tipo pelato e muscoloso con due trapezi enormi - sembra La Cosa dei Fantastici quattro - inveire contro un ragazzino esile e alle prime armi.
Riconosco nel muscoloso i tratti e gli atteggiamenti del cattivo.
Mi alzo dalla panca e mi avvio verso un ragazzo che al momento del battibecco era proprio vicino ai due.
- Amico, ma che è successo?
- Niente, bro'... il ragazzino ha chiesto a big di alternarsi con lui per usare il macchinario e il tipo ha sbroccato.
-Ah... ho capito. Cioè così all'improvviso?
-Sì, all'improvviso... senzo motivo. Big sarà un po' stressato... saranno gli steroidi.
Il tempo inizia a rallentare, quasi si ferma. Il battito accelera, lo sento in gola e la mano destra inizia a tremarmi. Ci siamo, mi sta ricapitando. Metto in atto gli insegnamenti di Gianni: inizio a respirare lentamente e profondamente e mi concentro su un pensiero felice... Funziona! Dopo qualche secondo, ritorno in me. Ho sventato l'attacco. Il tempo ritorna a scorrere normalmente e la parte razionale del cervello riprende il controllo.
Ormai calmo, torno alla panca, riprendo i manubri e inizio a fare l'esercizio.
Ma la situazione degenera: il muscoloso inizia a insultare il ragazzino e dallo specchio vedo che inizia a spingerlo.
Nessuno interviene.
Poso i manubri a terra e mi alzo dalla panca.
"Lo so, è grosso... Questa volta mi faccio male", penso tra me.
Faccio un respiro profondo e mi avvio verso il muscoloso... ho la "Sindrome dell'eroe", non ci posso fare niente.


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